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Maestro, dove abiti? Venite e vederete!

15 Ottobre 2015webmasterPensieri

Perché siete qui? Vorrei dirvi come vedo io la cosa, riassumere brevemente i termini della proposta che vi ho fatto.

Partiamo da un dato: che uno si trovi dentro un’inclinazione di dedicare la propria vita a Dio. Non importa se questa inclinazione è chiara o confusa, quando e come è nata: io la prendo in considerazione come un dato. Se tu ti trovi dentro questo dato, io ti invito a parlarne una volta con il Patriarca per capire cosa vuol dire perché, prima di tutto, cercar di capire fa parte dell’umana natura. In secondo luogo perché questo dato (l’inclinazione di dedicarsi a Dio), mette in campo la risposta ad una chiamata – vocazione – a vivere la propria esistenza immedesimandosi, alla lettera, con la modalità vissuta da Gesù, che non si è sposato. Quindi dedicarsi a Dio significa dare tutta la vita a Gesù, vivendo anche la dimensione degli affetti senza passare attraverso il matrimonio, ma dando tutta la propria persona, tutta la propria energia affettiva a Dio nella verginità. Quello che voi avete dentro ha a che fare con questo. Perciò – vi ho proposto – trattiamo questa inclinazione come un dato e troviamoci una volta a capire che cosa vuol dire. Dopo questo incontro, pensandoci qualche giorno, con libertà, potrete decidere di cominciare un cammino comune di verifica di questa intuizione o di fermarvi a questo primo passo.

a) Partiamo dunque dal dato. Proprio perché lo trattiamo come un dato e non come una idea, noi diamo molta importanza al fatto che uno si trovi nel cuore questa inclinazione. Che cosa differenzia un dato rispetto a un’idea che io mi faccio? Un dato prende l’avvio come qualcosa che ha il carattere di un fatto che non sono io a porre. Siccome l’idea di dedicarsi a Dio non mi verrebbe senza assecondare fino in fondo la mia capacità affettiva che – essendo io un essere di anima e corpo – mi orienta con naturalezza a quel rapporto stabile con l’altro sesso che si chiama matrimonio, e siccome questa inclinazione non è affatto ovvia, non è la cosa più comune (la maggioranza dei vostri compagni non si sogna neanche di averla dentro..!), anzi la cosa è talmente eccezionale che è impossibile, normalmente parlando, che venga da una mia fantasia. Infatti ha origine dal fatto che io resto colpito da altra gente che vive così, che mi testimonia che la vita vissuta così può essere bella. La partenza è sempre da fuori di te. Chiaramente poi la cosa non potrà non prendere una fisionomia in te, arrivando a dominare i tuoi pensieri, a prendere possesso della tua persona. Ma l’inizio ha il carattere di questo dato, è come un fatto. È più simile al sole che tramonta che non ad un mio pensiero. Se io penso alla mia vita, posso risalire al momento storico preciso in cui per la prima volta ho percepito questa inclinazione. E la cosa ha avuto proprio il carattere di un fatto: facevo la quarta elementare quando un frate delle Scuole Cristiane venne in classe e ci parlò con entusiasmo dell’insegnamento e della possibilità che la sua Congregazione offriva a chi si preparava a dedicarsi a Dio, di diventare insegnante per andare in tutto il mondo. Io ne rimasi talmente entusiasta che volevo partire subito con questo frate!Dopo più di cinquant’anni io posso risalire al fatto preciso, oggettivo che ha determinato in me questa inclinazione. Sono sicuro che lo stesso vale anche per voi: magari il fatto potrà essere non così immediatamente evidente, potrà imporsi in modo graduale, ma il dinamismo è identico.

b) Questo fatto non capita per caso. Niente capita per caso. Per noi cristiani, come del resto per ogni uomo che fosse serio con la propria umanità, la realtà nella quale siamo immersi – cioè la vita – non è un caso, ma l’attuarsi del disegno di Dio che ha fatto l’uomo (io, tu, ogni persona…), ha fatto la storia e conduce la vita di ciascuno di noi. Ho parlato di ‘io’ e di ‘realtà’, nel senso che l’esistenza di ogni uomo ha a che fare ogni giorno con questi due fattori. Oggi voi avete lasciato le vostre case e siete venuti qui: come possiamo definire questo fatto? Possiamo dire che è stata una circostanza che ha interpellato il vostro io, la vostra libertà, determinandola a fare una scelta. Quindi realtà e io. Ebbene la nostra fede, il nostro modo di concepire la vita, ci fa capire che nessuna circostanza è casuale, niente capita per caso, ma ogni fatto è l’espressione, è il modo attraverso il quale il Padre, che conduce la storia, chiama la mia libertà . Quindi il dato “inclinazione di dedicarsi a Dio”- che parte da un fatto che non dipende da te, ma ha provocato la tua libertà – non è casuale, viene dall’Autore della vita. In caso contrario noi dovremmo abbandonare il cristianesimo e la fede. Ovviamente ci sono talune circostanze che lasciano alla mia libertà un margine 99 (circostanze evitabili) e altre che non ne lasciano alcuno (circostanze inevitabili). Sono stato invitato a venire qui oggi. È un esempio di circostanza evitabile: potevo farlo o non farlo. Se adesso mi dovesse cadere in testa quella trave, questa circostanza assumerebbe il peso di una inevitabilità, non avrei nessun margine di libertà. Dire, perciò, che ogni circostanza, ogni dato viene da Dio, è consentito dal Padre, non significa mettere tutto sullo stesso piano, ma significa che io non sono veramente libero, non sono veramente un uomo, se non prendo in considerazione Colui che sta dietro alla circostanza che mi manda. Anche se mi cadesse quella trave sulla testa dovrei prendere in considerazione il fatto che, se mi succede, c’è dietro un disegno. Questo disegno potrebbe passare dal dolore, dalla prova, io potrei metterci tutta la vita a capire cosa vuol dire, ma la mia fede comporta che io accetti anzitutto che viene dall’iniziativa di un Altro.

c) Ricapitolando: c’è in gioco un fatto, una circostanza, che interpella la mia libertà. Questo fatto non viene dal caso, ma dal Padre. Quindi è il Padre che interpella la mia libertà. Siamo giunti al terzo passaggio: la parola più giusta per definirlo è vocazione. Se il Padre interpella la mia libertà ogni circostanza della vita, ogni rapporto della vita è una chiamata a cui io rispondo. Persino bere un sorso di acqua ha questo straordinario “spessore”. Questa è una cosa importantissima da capire: è sbagliato riservare la parola “vocazione” unicamente per la forma o lo stato di vita consacrata o matrimoniale. Ad essere vocazione è la vita in quanto tale. Gesù – che è la Via, la Verità e la Vita – è venuto proprio ad insegnarci questo. È la Via perché ci insegna questo. Questa è una cosa dell’altro mondo! Dietro ad ogni azione quotidiana e sociale, dietro ad ogni rapporto interpersonale, dietro ad ogni circostanza c’è la chiamata di un Padre, il Padre di Gesù Cristo, che interpella la mia libertà ad aderire. Non posso neanche dire “Questo è un bicchiere” fino in fondo senza in qualche modo riconoscere la chiamata di Colui che ha creato questo oggetto a coinvolgermi con questo oggetto e, attraverso questo oggetto, con Lui. Per cui la vita è vocazione perché ogni circostanza e ogni rapporto sono un segno, un veicolo della presenza del Padre alla mia vita. Potremmo anche usare una parola grossa: ogni circostanza e rapporto della vita sono il sacramento della presenza del Padre. Tutta la realtà (che alla fine è una trama di circostanze e di rapporti) è sacramento, è segno del Padre che invita la mia libertà a giocarsi. Allora anche l’inclinazione a dedicarmi a Dio – che ha la natura  di una fatto, quindi che si lega a una circostanza, che interpella la mia libertà, che pertanto è vocazione, che pertanto è segno della chiamata del Padre – deve essere compresa e letta dentro questa prospettiva.

d) Come affronto questo dato? Già il fatto di trovarci qui oggi è un modo di affrontarlo. A conferma della natura di segno, di sacramento e quindi di circostanza reale attraverso cui il Padre interpella la mia libertà, sta proprio la circostanza che stiamo vivendo adesso. In concreto cosa è successo? Il Patriarca o qualche sacerdote ti ha detto: “Se ti trovi dentro l’inclinazione a dedicarti a Dio vieni il tal giorno nel tal luogo dove ci troveremo a parlarne insieme”: in concreto siete stati chiamati. La natura di chiamata, di una cosa che non dipende da te, si documenta nell’incontro informale e libero che stiamo vivendo. Si tratta di una chiamata a cui tu hai dato risposta. Delle 2800 persone che erano presenti al Palaturismo di Jesolo ai quali abbiamo rivolto l’invito avete risposto voi 4. E questo ci dice anche qual è la strada per capire che cosa significa questo fatto: trovarsi nel luogo – la Chiesa, la comunità cristiana – che Gesù stesso ci ha indicato per educarci a vivere tutta la vita come vocazione e cominciare a mettere in comune il senso di questo dato.
Cosa vuol dire il Padre a te, mettendoti dentro questa inclinazione, che ha il carattere di una circostanza che interpella la tua libertà? Quello di oggi è il primo passo. Esso, se tu trovi ragionevole quello che ci stiamo dicendo, avrà bisogno di una continuità, di un tuo impegno. Esso consiste, prima di tutto, nell’educarci a vivere tutta la vita come vocazione. Questo è possibile vivendo fino in fondo una esperienza di chiesa, cioè di comunità cristiana. Tutti voi vivete questa esperienza. Pertanto la prima cosa non è discutere intorno a cosa significa dedicarsi a Dio. Il primo modo per prendere sul serio l’inclinazione che vi trovate nel cuore è vivere un’appartenenza seria e forte alla comunità cristiana di origine, dove lasciarsi educare a vivere la vita come vocazione.

Delle 2827 circostanze con cui la realtà ci viene davanti ogni giorno e dei 125 rapporti che viviamo ogni giorno noi, nel 99% dei casi, abbiamo la tentazione di vivere tutto questo non come vocazione, non come risposta alla chiamata del Padre, ma come qualcosa che produciamo noi, i cui padroni ed attori siamo noi. Vivere la vita come vocazione, cioè aderire, attraverso le circostanze e i rapporti, ad un Altro non è per nulla ovvio. Ecco perché San Giovanni arriva a dire “Saranno sempre educabili da Dio”, dalla culla alla bara. Io, che ho quasi 62 anni, tutti i giorni ho bisogno di imparare a vivere la vita come vocazione. Anche la vocazione specifica ad essere Patriarca di Venezia mi è stata data perché io impari a vivere la vita come vocazione. Potrei impararla se non avessi la compagnia stabile della Chiesa? E non sto parlando della Chiesa in generale, ma della Chiesa che raggiunge me.

Quando Giovanni e Andrea lasciano il Battista per andare dietro a Gesù sulla riva del Giordano, a un certo punto Gesù si gira e gli chiede: “Cosa volete?” Loro gli rispondono con una domanda: “Maestro, dove abiti?” e lui li chiama a coinvolgersi con lui: “Venite e vedrete”. I due andarono a casa sua e da quel momento ebbe inizio una compagnia e una storia, precise e concretissime, tanto che il Vangelo ne registra perfino l’ora: “erano le 4 del pomeriggio”. Mi riferisco alla Chiesa come comunità cristiana, come gruppo di amici di Cristo.

Il primo modo per vivere quell’inclinazione è vivere la vita in piena libertà, cioè in comunione, cioè appartenendo con verità a una comunità ben identificata, alla quale io mi affido. Questo mi permette di stare dentro la realtà in tutti i suoi aspetti, di conoscermi, di capire i fattori della mia esistenza… E questo, molto lentamente, farà capire meglio i segni che Dio manda, farà leggere questi segni anche in vista della scelta dello stato di vita. Perché lo stato di vita – se sono chiamato a fare il sacerdote, piuttosto che a fare il gesuita… se devo andare nella trappa, se devo andare in missione-  non è il frutto né di una mia decisione, né di una mia elucubrazione mentale, ma è l’emergere di una trama di circostanze-segni che con grande chiarezza il Padre, nella comunità cristiana, pone davanti alla mia persona, alla mia libertà, mettendo insieme i quali ad un certo punto diventa naturale fare questo passo.

Perciò la prima condizione che mi è chiesta è stare dentro la realtà, tutta la realtà. Tutta la mia libertà giocata con tutta la realtà. Ma star dentro cristianamente, come Cristo stava dentro, cioè nella comunità.

Questo momento allora è come un punto di aiuto che il Patriarca offre a quanti si trovano ad avere questa inclinazione nel cuore, un punto di aiuto per compiere una verifica, per verificare se ci sono tutti i fattori che rendono ragionevole per me dedicarmi definitivamente a Dio.

Cos’è una verifica? Il significato etimologico del termine “verifica” è “constatare, rilevare se è vero”.  Fin qui abbiamo capito: 1) la natura di questa inclinazione, cioè l’elemento oggettivo (è un fatto) e l’elemento soggettivo (che interpella la mia libertà); 2) che sta dentro una visione della vita per cui la vita stessa è vocazione; 3) che ogni circostanza è un segno della misericordia di Dio che chiama la mia libertà; 4) che questo segno va vissuto nella vita della comunità. Adesso si tratta di vedere se esistono tutte le condizioni che rendono veramente ragionevole investire la propria vita in questi termini. Questo si chiama appunto “verifica”: “verum facere”, cioè costatare la verità di una cosa. Constatare cioè che questa inclinazione sia il bene per me, sia ciò che veramente Dio vuole da me, per cui aderendo ad essa io realmente mi realizzo, mi compio. Questa è infatti l’unica ragione. Il servizio agli altri, l’utilità per il mondo… ecc. ecc. sono come una condizione di questa ragione prima e profonda, che è la verità dell’io, il compimento dell’io. È la mia felicità.Senza la verità dell’io non c’è verità possibile, quindi non si può comunicare nulla a nessuno.

Dunque il Patriarca propone alle persone che hanno questa inclinazione nel cuore e vivono seriamente la vita di comunità, che ci sia un luogo, un  momento, in cui cercare di compiere insieme una verifica di questa inclinazione, di vedere se dura nel tempo.

Questa verifica, come tutti i gesti nella Chiesa, ha due versanti: il primo, soggettivo, è quello della tua libertà, che deve essere aiutata a riconoscere i segni e a dire “sì” con il passare del tempo, anche grazie all’aiuto di questo momento e di quelli che verranno. Ci sarà anche qualche sacerdote che spiegherà passo dopo passo in cosa consiste la dedizione a Dio, ripartendo dal concetto di realtà, di libertà, di incontro con Cristo, di comunità, di verginità nella comunità, di povertà, castità, obbedienza. Insomma dal tentativo di spiegare che cosa la Chiesa da 2000 anni intende con “dedizione a Dio”. E’ un incontro proposto alla tua libertà, con un ambito di amicizia che non si sostituisce alla comunità, ma è come se si facesse carico di questo aspetto, del modo concreto con cui la vita come vocazione si attua. Per es. per me che sono sacerdote da 33 anni, il modo attraverso cui affronto la vita come vocazione è diventato il mio sacerdozio. Dunque il lavoro di verifica ha un aspetto soggettivo, per cui sei in gioco tu. Col passare del tempo, vivendo una piccola regola che vi indicheremo, incontrandosi con questi amici, ma soprattutto restando immanente alla comunità, leggendo le circostanze e i segni che Dio manda, uno sente di essere sempre più convinto.

Siccome però questa vocazione specifica sta dentro un disegno – il disegno di portare Cristo al cuore del mondo – c’è anche un cornooggettivo di questa verifica, per cui la Chiesa ti dice se tu sei fatto per questo. Ecco a cosa serve il nostro trovarsi: chi nella Chiesa ha l’autorità – il Patriarca e i suoi collaboratori -, con il tempo, hanno la possibilità di valutare e il compito di dire se tu sei fatto per questo. I collaboratori sono il tuo direttore spirituale, una persona più adulta che ti aiuta, le stesse persone più grandi che puoi trovare in questo gruppo, che possono anche dirti che tu non hai affrontato bene questa circostanza.

Questa è dunque la proposta che facciamo: un  gruppo di amici che compie insieme a te e in tuo favore questo cammino di verifica. Questo cammino arriverà fino al momento in cui tu, obbedendo ai fatti, dirai “Io ho capito” e magari “Rischio di entrare in seminario”. A quel punto incomincia un altro periodo di verifica che però ha già un suo ambito, una sua comunità, non sarà più questo gruppo. Non dovete rispondere oggi se intendete stare al percorso della verifica. L’unica cosa che vi domando, perché nessun uomo cresce senza giocare la sua libertà e senza esporsi, è questa: se – una volta tornati a casa e prima del prossimo incontro – decideste che questo non è il vostro posto, comunicatemelo scrivendomi la vostra decisione.

Io non sto negando che possa esistere una preferenza per una persona dell’altro sesso, sto dicendo che se uno si impegna a verificare l’ipotesi di dedicarsi a Dio non può contemporaneamente impegnarsi a fare il fidanzato. Per dire “Sì, faccio questa strada” bisogna essere netti su questo punto. Non dico che non si debba avere dentro un’inclinazione per un’altra persona, ma solo che non la si esplicita. Abbiamo detto che vivere un’inclinazione a dedicarsi a Dio significa tentare di seguire Cristo immedesimandosi con la modalità con cui Lui ha vissuto l’affezione. La verginità, questo modo di vivere la consacrazione, implica l’attuazione completa e sana della propria affezione; ovviamente implica la rinuncia all’aspetto della genialità sessuale, ma non è una non realizzazione. Noi non siamo dei castrati, della gente che non sa amare. Non proponiamo una forma impossibile, come la maggioranza degli uomini di oggi sarebbe portata a dire; la nostra vita affettiva si può realizzare in pieno nella verginità, anche attraverso la rinuncia – che deve essere chiara – della sessualità nei suoi dinamismi genitali.

 Concludendo: tu avevi dentro questa inclinazione, il Patriarca ti ha sollecitato ad esplicitarla, l’abbiamo esplicitata. Da qui è venuto, da parte mia, l’invito mia ad impegnarti con questa verifica. Ad esso tu mi darai risposta liberamente.Lo scopo di questo incontro previo, incompleto senza la parte che verrà dopo, era solo quello di aiutarvi a passare dall’inclinazione a una esplicitazione oggettiva, attraverso l’invito formale del Patriarca a prendere sul serio l’ipotesi della verifica.

L’elemento della discrezione di questi incontri dipende dal fatto che vogliamo rispettare fino in fondo la vostra libertà. Non vogliamo che vi sentiate appiccicato addosso un impegno non scelto. Se questa nostra scelta potrà rendere più faticose le comunicazioni, essa domanda anche che uno voglia questa cosa, che risponda, che si informi. Vogliamo che sia la tua libertà a sporgerti, per cui anche se tu, ad esempio, vuoi invitare a questi nostri incontri il tuo direttore spirituale puoi farlo, ma devi farlo tu. La discrezione è per rispettare la libertà di tutti, perché in ogni momento di questo cammino di verifica uno può decidere di interrompere. In questo caso gli chiediamo solo di comunicarlo in un semplice paragone con noi. Comunque, anche se sarà chiamato a formarsi una famiglia, questa esperienza potrà servirgli nella vita. Vi assicuro che aver dedicato queste ore ad approfondire la vita come vocazione e l’inclinazione a dedicarsi a Dio renderà qualitativamente più autentico il suo matrimonio. Quindi nessuno di noi ha un progetto, né alcun esito obbligato sulle vostre teste, lo ha solo Dio.

La discrezione in queste cose può essere importante anche per i vostri genitori. Non è necessario infatti comunicarla loro subito, e questo non implica venir meno a un dovere, perché, se la cosa è ancora “in gestazione”, inutile “spaventare” i genitori prima che essa diventi chiara.

Il Card. Angelo Scola al primo incontro del Gruppo di Verifica – 17 maggio 2003

Tag: maetro, scola, sequela, vocazione
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